venerdì 13 marzo 2015

2^ LEZIONE AGGIUNTIVA DI DIRITTO PRIVATO.

Articolo 1376 è IMPORTANTISSIMO e DA RICORDARE.
Di regola l’efficacia di una norma è subordinata al trascorrere di un certo periodo di tempo. Di regola il trascorrere di questo periodo di tempo è di 15 giorni (VACATIO LEGIS) -- > periodo tra perfezionamento ed entrata in vigore della norma. I 15 giorni possono essere ridotti (possono entrare in vigore immediatamente, oppure entrare in vigore in un tempo più lungo). A norma dell’articolo 11 delle preleggi la norma non può essere retroattiva, ma dispone solo per l’avvenire: questo concetto aiuta la certezza delle norme giuridiche. La confusione nasce dal fatto che il legislatore non può modificare diritti acquisiti: il concetto di pensione ne è esempio. Negli anni, infatti, cambiano i metodi di calcolo o gli anni per poter andare in pensione. Non è una deroga alla legge per cui la legge stabilisce solo per il futuro, ma poiché va diversamente giudicata la situazione su cui la regola incide.
I casi di perdita di efficacia sono riconducibili a 5 situazioni (DOMANDA PLAUSIBILE ALL’ESAME):
-        Se abrogata, l’abrogazione può essere:
o   Espressa, il legislatore emana una nuova normativa e questa nuova normativa abroga esplicitamente la normativa su cui l’istituto incide;
o   Tacita, vi è incompatibilità tra la nuova e la vecchia normativa. Si applica quella in vigore.
o   Se una nuova norma sostituisce in toto la precedente;
o   Come conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità della norma (questa dichiarazione ha effetto di abrogare ex tunc la norma);
o   Referendum abrogativo (ex articolo 75 Cost.). Ci deve essere un numero di votanti pari al 50% + 1 (quorum costitutivo).
Le norme vanno anche interpretate: l’interpretazione è il motivo per cui esistono giudici ed avvocati. Il primo criterio interpretativo è quello letterale: connessione delle parole e loro significato.
Si passa poi alla RATIO LEGIS, all’intenzione, allo scopo, nel momento in cui il legislatore ha emanato quella normativa. La ricerca dell’idea è il risultato di un’interpretazione logica (art. 12 delle Preleggi).
Va sempre tenuto presente che queste norme si devono relazionare con altri istituti, con altre norme: bisogna sempre fare riferimento al quadro complessivo attuale (ciò che in questo momento è il diritto oggettivo). Questa è l’INTEPRETAZIONE SISTEMATICA.
Questi appena enunciati sono i criteri di COME si deve interpretare la norma. A seconda della FONTE, invece, si distinguono:
  1. Interpretazione autentica, volte in cui il legislatore emana delle normative in cui spiega il significato delle norme precedentemente emanate;
  2. Interpretazione dottrinale, l’interprete è aiutato da accademici: egli può meglio comprendere il significato delle norme;
  3. Interpretazione giurisprudenziale, data dalle sentenze dei giudici. È vero, non siamo in un sistema di COMMON LAW: ma finché ci si trova davanti ad una sentenza della Cassazione, il giudice di primo grado si conformerà (con grande probabilità) alla sentenza di Cassazione.
Qual è il risultato dell’interpretazione?
-        Estensiva: amplia il significato della norma;
-        Restrittiva: restringe il significato della norma;
-        Dichiarativa: la norma è come appare.
L’articolo 12 delle Preleggi dà una serie di indicazioni su come devono essere interpretate le norme. Nel secondo comma viene inserito il concetto di “analogia”: la realtà supera la fantasia, non può essere previsto tutto ciò che il legislatore non può pensare esista (e invece esiste nella realtà). Nell’ipotesi in cui ci siano delle lacune nel diritto, esiste l’istituto dell’analogia. Nell’analogia io applico delle norme ad una fattispecie che ne è sprovvista: nella analogia v’è un vuoto normativo. Come previsto dal legislatore, l’analogia può essere LEGIS o JURIS.
v  L’analogia LEGIS presuppone che vi siano casi simili o materie analoghe: accertare l’esistenza di una lacuna, individuare la norma che regola casi simili ed infine verificare l’esistenza di una medesima RATIO (di un elemento in comune). La medesima RATIO diventa fondamentale criterio per capire se una disciplina è applicabile o meno ad altro istituto giuridico.
v  L’analogia JURIS si applica tutte le volte in cui non è possibile trovare una materia analogia: si applicano i c.d. principi dell’ordinamento. Il legislatore non ci lascia un elenco i principi dell’ordinamento, però! Sono molto importanti, ma allo stesso tempo sfuggevoli. Sono principi dell’ordinamento regole non scritte, ma derivanti e ricavabili da queste, e che mettono d’accordo gli interpreti sull’esistenza di un sostrato del nostro ordinamento giuridico.
I PRINCIPI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO SONO COSA BEN DIVERSA DALLE CLAUSOLE GENERALI!!!
Le clausole generali, infatti, sono norme scritte: essendo generali, sono di applicazione trasversale (si applicano ad una serie indefinita di casi). Un esempio piuttosto noto è il concetto di BUONA FEDE. È una norma di applicazione generale, trovabile (esplicitamente richiamata) in vari articoli, come ad esempio l’articolo 1337. È una clausola generale trovabile anche nel 1175. Ha il vantaggio di poter essere sempre richiamata da una loro specifica previsione legislativa.
SI TENGANO DISTINTI QUESTI DUE DALLE “CONDIZIONI GENERALI DI CONTRATTO”!!!
Si fa riferimento alla contrattazione di massa, che il nostro legislatore nel 1942 aveva previsto in modo ben specifico (artt. 1341-1342). Il legislatore afferma che il contratto è concluso nel momento in cui la proposta viene accettata dall’oblato e il proponente conosce l’accettazione (PRINCIPIO DELLA COGNIZIONE). Le condizioni generali di contratto si rivolgono ad una generalità di consociati e hanno un prezzo prefissato, per esempio. Le FS, per esempio, stabiliscono un regolamento contrattuale: colui che si limita ad aderire è tenuto ad aderire alle norme che sono stabilite nel regolamento. All’acquirente sono opponibili se sono conosciute o conoscibili per ordinaria diligenza. Nel II comma si fa un passaggio in più: dove ci sono quelle clausole che comportano uno squilibrio e che sono vessatorie nei confronti di chi aderisce al contratto, queste sono a lui opponibili solo se sono state oggetto di specifica sottoscrizione. L’elenco contenuto nel II comma è tassativo, non suscettibile di estensioni.
Le situazioni giuridiche soggettive sono divise in attive e passive: si concede ad un soggetto il potere di fare determinate cose; un soggetto è tenuto a sopportare che un altro soddisfi un interesse contrastante rispetto alla propria posizione (passivo).
I diritti soggettivi vengono divisi in ASSOLUTI e RELATIVI: se assoluti ERGA OMNES, oppure se RELATIVI nei confronti di UN SOLO SOGGETTO (le obbligazioni, per esempio). Qual è il rapporto tra un obbligazione e un contratto? La confusione nasce dal fatto che spesso la materia risulta troppo astratta, quando invece è la più legata alla realtà. I contratti sono fonte di obbligazioni e il contraente varia a seconda del contratto che si prende in considerazione. Il contraente assume in sé la qualifica di creditore o debitore. Dal contratto nascono più obbligazioni: un contraente può essere debitore di una certa obbligazione ma anche creditore! Dal contratto di compravendita nascono delle obbligazioni: il venditore deve consegnare la cosa; il compratore dovrà pagare il prezzo. Il compratore è DEBITORE nell’obbligazione “pagare il prezzo” (prestazione di dare) ma CREDITORE nell’obbligazione “consegnare la cosa”.
I diritti relativi ricevono tutela solo nei confronti di un determinato contesto. Lo schema dell’obbligazione fa capire come nei diritti relativi, per il soddisfacimento del proprio diritto, si necessiti della collaborazione di una controparte. È diverso OBBLIGAZIONE da OBBLIGO: il primo è diritto relativo con oggetto prestazione di tipo patrimoniale, il concetto di obbligo è diritto relativo con oggetto prestazione di tipo non patrimoniale.
L’onere, invece, è una situazione giuridica soggettiva che pone un dovere di comportamento in capo ad una parte, al solo fine di raggiungere un determinato scopo-risultato. La parte non è OBBLIGATA a tenere quel comportamento, ma lo deve tenere se vuole raggiungere un dato scopo (scelta libera). Questo ex articolo 1456 CC.
Ci sono anche situazioni minori: poteri o facoltà. La facoltà è la possibilità per il soggetto di tenere o meno un dato comportamento. Il comportamento che il soggetto tiene, in assenza della facoltà, è illecito. La conseguenza è il risarcimento del danno (art. 2043 CC). Esistono circostanze in cui la legge prevede un indennizzo pur se si è esercitata una facoltà. La differenza fra risarcimento ed indennizzo è che il risarcimento si ha tutte le volte in cui l’atto compiuto è illecito; l’indennizzo è conseguenza di atto lecito ma, che avendo cagionato danno a controparte, impone per legge il ristoro di una certa somma di denaro. Il risarcimento non è predeterminato dalla legge; l’indennizzo è stabilito dalla legge in maniera TASSATIVA, in cui il soggetto, pur avendo compiuto atto lecito, deve indennizzare chiunque abbia subito depauperamento. Infine, mentre il risarcimento mira a ripristinare in toto quanto è stato ingiustamente leso dall’atto illecito, l’indennizzo funziona a spanne, riconoscendo solo una parte del danno ricevuto.
Correlativamente alla facoltà abbiamo il potere: questo è la possibilità di porre in essere delle azioni che mutano la sfera giuridica dei destinatari. In assenza di potere l’atto sarebbe inefficace. Si riconosce poi uno speciale potere d’agire tutte le volte in cui la legge concede ad un soggetto la possibilità di agire per soddisfare un proprio interesse.

Se l’interesse per cui si agisce si parla di POTESTA’ o di UFFICIO DI DIRITTO PRIVATO. Le potestà sono previste dal codice in riferimento soprattutto ai minori.

5^ LEZIONE DI DIRITTO PRIVATO.

La disposizione riconducibile al principio di autonomia contrattuale (1322) sta a valle rispetto alla libertà di vincolarsi in un contratto o di evitare di vincolarsi in un contratto.
Altro modo per evitare il portare a termine un contratto è la REVOCA della PROPOSTA: la caratteristica generale di questo istituto è atto unilaterale con effetto di privare di efficacia un atto precedente. La revoca è atto successivo che toglie di mezzo gli effetti dell’atto precedente. La proposta rimane: ciò che viene meno è l’effetto della proposta. L’effetto della revoca della proposta è quello di far sì che diventando priva di effetti la proposta, ovvero il potere di determinare la conclusione del contratto, e di impedire la conclusione del contratto, anche quando vi sia accettazione.
Stessa cosa per la REVOCA della ACCETTAZIONE: l’effetto proprio sarebbe quello di provocare la conclusione del contratto, ma la revoca lo impedisce.
Entrambi sono atti unilaterali, posti in essere dallo stesso attore rispettivamente, eliminando gli effetti riconducibili all’atto revocato. La revoca della proposta è indirizzata all’accettante; la revoca della accettazione è indirizzata al proponente. Sono atti unilaterali recettizi. E vale il solito articolo 1335. Entrambe sono espressione di un diritto che è portato ad implicazione del principio di autonomia contrattuale. L’ultimo momento nel tempo in cui non si può più revocare né la proposta né l’accettazione è il momento in cui l’atto è concluso. Se l’atto è concluso vi è il contratto che, ai sensi dell’articolo 1372, HA FORZA DI LEGGE FRA LE PARTI.
Ma dove si trovano le revoche sopra citate? All’articolo 1328. La proposta può essere revocata anche DOPO l’emissione della accettazione, PURCHE’ sia stata emessa PRIMA della presa di conoscenza da parte del proponente.
Lo stesso vale per l’accettazione: il contratto è concluso quando l’accettazione giunge a conoscenza del proponente. La revoca dell’accettazione DEVE CATEGORICAMENTE GIUNGERE prima dell’accettazione stessa. FACCIAMO UN ESEMPIO: ad un industriale si rompe una macchina della catena di montaggio e ne ordina una nuova. Chi la vende manda subita l’accettazione, ma riceva ben presto una revoca della proposta. Chi la vende aveva già cominciato ad assemblarla per fare un favore all’industriale. Egli è in buona fede e il proponente è tenuto ad INDENNIZZARLO delle spese e delle perdite subite.
INDENNIZZO: nel diritto privato è un termine che va tenuto NETTAMENTE SEPARATO dal risarcimento. In entrambi i casi sono una somma di denaro con funzione compensativa: si parla di risarcimento quando il danno è stato comportato da un comportamento ANTI-GIURIDICO. Viene fatto qualcosa che non andava fatto per legge.  Si parla di indennizzo quando i possibili danni e pregiudizi vengono arrecati compiendo un’attività lecita e consentita, NON fatto illecito o anti-giuridico. Quello sopra riportato non è un esempio anti-giuridico, anzi! Tutto l’opposto. Nel caso di danno provocato da attività lecita e nell’ipotesi provocata da esercizio di diritto, la legge consente (in certi casi) una misura pecuniaria compensativa chiamata INDENNIZZO. Il risarcimento è concesso in ogni caso di comportamento anti-giuridico.
V’è un’altra disposizione del codice: certe vicende che possano riguardare uno dei possibili contraenti possono causare l’impossibilità di portare a termine il contratto (morte o incapacità sopravvenuta). Gli eredi dovrebbero subentrare in qualità di proponente (nel caso il defunto, prima di morire, avesse pronunciato una proposta contrattuale a qualcuno). Dal momento che il tempo per l’eredità è molto lungo o possono non esserne a conoscenza, gli eredi possono liberamente decidere se la proposta formulata dal defunto.
La incapacità è l’incapacità che colpisce i minori di età o i maggiorenni, i quali abbiano malattie mentali che li rendono non in grado di esprimere delle proposte stabili. Se qualcuno diventa “pazzo” non è più in grado di esprimere opinioni valide (art. 1330). Quel “salvo casi particolari” riportato nell’articolo appena citato fa riferimento al fatto che l’imprenditore che muore o diventa incapace (per nozione di “imprenditore, vedi articolo 2082). Il procedimento non si interrompe in quanto l’attività imprenditoriale è strutturata ed organizzata: consente una razionale attività economica. Il fatto che ci sia un’organizzazione dà ragione della circostanza di concludere il contratto da parte dell’impresa: la scelta di concludere il contratto è una scelta organizzativa. Proprio perché il contratto dell’impresa è scelta organizzativa, il procedimento di conclusione del contratto non si interrompe.
Il principio di autonomia privata si inserisce anche all’interno della formazione e conclusione del contratto: bisogna notare come il principio dell’autonomia privata implichi anche che le parti sono libere di regolare come vogliono il procedimento di conclusione del contratto. Torniamo all’articolo 1326: il proponente può assegnare un termine per l’accettazione della proposta (è solo una possibilità, PUO’) -- > II comma. Se il proponente non assegna un termine, chi accetta può farlo quando vuole, ma nei limiti di tempo RAGIONEVOLI. Il proponente PUO’ inoltre chiedere una particolare forma per l’accettazione. Se l’accettazione non è così fornita, questa non determina la conclusione del contratto.
Questa autonomia privata all’interno del procedimento di conclusione viene detta AUTONOMIA PROCEDIMENTALE. La disciplina del contratto è una disciplina che non serve soltanto a risolvere liti, ma soprattutto è un insieme di strumenti giuridici che l’ordinamento mette a disposizione dei privati per regolare i loro rapporti patrimoniali, nel modo più confacente ai loro stessi interessi.
Possibilità di revocare la proposta: proposta ferma o proposta irrevocabile (art. 1329). È il caso di una agenzia immobiliare: l’agenzia, sentita la proposta del possibile acquirente, fa firmare una proposta ferma od irrevocabile. È una rinuncia alla possibilità di revocare una proposta per un determinato periodo di tempo (art. 1329). Se non viene indicato un periodo di tempo, la proposta è revocabilissima. L’effetto della revoca di una proposta irrevocabile, resta in piedi la proposta, non ha effetto l’atto che revocherebbe la proposta. L’effetto di rendere revocabile la proposta può derivare da accordo tra proponente e destinatario della proposta: la proposta resterà ferma per un certo periodo di tempo. Questo è un patto di OPZIONE (art. 1331). L’accordo produce gli stessi effetti della proposta irrevocabile. L’articolo 1331 stabilisce che se per l’accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice. Questa opzione è in realtà molto utile e diffusa: l’accordo con cui la parte si impegna a tenere ferma la proposta, è un contratto. Come tutti i contratti può essere a titolo gratuito o a titolo oneroso. Si può prevedere, quindi, nell’opzione, un corrispettivo per la proposta irrevocabile (pago una somma pur di avere un periodo di tempo durante il quale l’altra parte non può revocare la sua proposta). Si sta parlando soprattutto di operazioni di tipo speculativo. L’opzione si può comprare e si può vendere, pur comportando un rischio.

L’opzione è lo strumento contrattuale grazie al quale si può speculare molto bene.  

5^ LEZIONE DI FILOSOFIA DEL DIRITTO.

Processo a Gesù di Nazareth – Massimo Miglietta (Università degli Studi di Trento)
Il processo ha sempre avuto il compito di evitare la vendetta privata: questa è la classica funzione del processo criminale, tanto quanto di quello civile.
Dimentichiamo questa funzione: il processo a Gesù è all’opposto. Questo processo è stato legato a strumenti che prescindono dall’elemento processuale. Il processo a Gesù è connesso alla CULPA EBRAICA: gli studiosi hanno condotto le loro indagini alla luce della responsabilità del popolo ebreo.
Il processo a Gesù ha cominciato ad avere una vicenda sua tipica immediatamente dopo la sua celebrazione: il processo a Gesù è stato oggetto di altra forma di processo culturale, contro Pilato, i Romani e i Giudei. Estremamente utili in tal senso sono due versetti del Vangelo secondo Luca: hanno fatto congiura i pagani, i popoli di Israele…già guardando a quel “hanno fatto congiura” ci rendiamo conto di non trovarci davanti ad un processo, mirato ad accertare la VERITA’, ma in presenza di una specie di complotto che spinge a considerare l’elemento fondamentale, ovvero a due profili. LA NATURA DELLE FONTI DI COGNIZIONE: queste non sono mai avulse dalla loro storia letteraria. Quali sono le fonti?
-        I vangeli canonici, che si contrappongono alle fonti apocrife (meno sicure delle prime). Le prime sono i quattro Vangeli SINOTTICI (che, cioè, possono essere letti simultaneamente, a differenza di quello di Giovanni, che invece è elemento a sé stante).
-        I vangeli apocrifi, non divinamente ispirati. Scritti che si susseguono nel tempo e che mancano della divina ispirazione. Tutti dovrebbero essere messi sullo stesso piano, ma questi sono meno attendibili.
I vangeli canonici, essendo stati divinamente ispirati, non sono mai stati modificati: risultano decisamente più affidabili. Il Vangelo di Nicodemo, però, pur essendo vangelo apocrifo, è importante fonte; anche il Vangelo di Pietro, di cui noi possediamo solamente una piccola parte, è importante: è una sorta di racconto che circolava tra le “donne fedeli”.
Fino a pochi anni fa i vangeli apocrifi venivano poco consultati, perché meno affidabili dei vangeli canonici, divinamente ispirati (come già detto sopra).
Qual è la natura delle fonti? NON SONO verbali processuali, i Vangeli sono “opere letterarie”, raccontano la fede e non un ordinato svolgersi dei fatti; NON SONO opere storiche, in quanto la storia è il fine, per testimoniare che Gesù è il profeta, il figlio di Dio, una sorta di “annuncio” che veniva dato al mondo affinché ci si convertisse a quella fede. I vangeli NON SONO certificazioni di un cancelliere!
Come sono nati questi vangeli? Sarebbero nati da un racconto originario della passione di Cristo. Questo racconto era molto vicino all’attuale Vangelo di Marco. Il Vangelo secondo Matteo, per esempio, è un’opera scritta da un ebreo PER gli ebrei. Egli è interessato alla cultura ebraica; il suo scopo tematico è quella di “smuovere” le persone, di convertire alla cultura ebrea. C’è quindi una dimensione critica nei confronti del giudaismo, che deve essere respinto per la nuova fede in Gesù.
L’opera più complessa e più colta è quella del Vangelo secondo Giovanni: è caratterizzato da una “esplosione” iniziale. Questo è connotato da una forte venatura anti-giudaica: ciò non vuol dire “antisemita”! E’ caratterizzato da una trasmigrazione di piani: attraverso il processo, nella sconfitta umana emerge la divina regalità di Gesù.
Quando sono stati scritti e pensati i vangeli? Sono opere che sono state scritte nel momento in cui le opere della Chiesa nascente si contrappongono al giudaismo ufficiale. Al processo di Gesù la partecipazione delle autorità romane viene affievolita a favore delle autorità ebraiche.
Qual è il compito del giurista e dello storico del diritto di fronte ad una letteratura così ampia? Abbiamo circa 2000 opere specialistiche e molte altre opere che si occupano della vita di Gesù. La letteratura si divide in due macro-categorie:
-        Scrittori di CULTURA CRISTIANA, da cui emerge un dato significativo: per loro la responsabilità esclusiva è degli ebrei;
-        Scrittori di CULTURA EBRAICA, da cui si emerge la totale estraneità del SINEDRIO al processo.
Non c’è nessun testo che parli da solo, naturalmente. Il vangelo ha bisogno di una sua interpretazione, che è sempre molto soggettiva. Gli studiosi occidentali-cristiani si sono avvalsi di teoremi sistematici: si pensi ad una pericope (brano) del Vangelo di Matteo. Ricordiamo la “lavanda delle mani” ad opera di Pilato: Pilato dichiara la propria innocenza anche nelle intenzioni, chiede dell’acqua e si lava le mani. Pilato si è rifiutato di prendere posizione: i giudei sono i veri responsabili della morte di Gesù.
Il vangelo di Pietro afferma: “nessuno degli ebrei si lavò le mani. […] Pilato afferma: <Io sono puro del sangue di Dio […]>.” Non si può naturalmente dire che sia inverosimile come episodio: tanto in Erodoto quanto in Virgilio il lavarsi le mani sta a significare “pulirsi del sangue”. SOLO NELLA BIBBIA, l’atto del lavarsi le mani sta a dire “rimando la punizione di chi scarica la responsabilità al futuro, per pulirsi dalle male intenzioni”. Inoltre la tradizione ROMANA voleva l’acqua per “lavarsi da questa responsabilità”. Fondare su questo episodio la preponderante responsabilità ebraica è, quindi, poco accettabile.
Vi sono inoltre due interpretazioni: secondo i cristiani, Cristo era stato ucciso dai giudei, che avevano preferito mandare a morte un uomo, piuttosto che permettere ai romani la distruzione dell’intera nazione giudaica. Secondo i giudei, invece, il loro atteggiamento era rivolto ad evitare la condanna di Gesù e salvare comunque la Nazione.
Al gran Sinedrio i romani affidano: il controllo dell’ordine pubblico e la funzione di giudice istruttore, organo deputato a raccogliere le prove e al deferimento ad altro tribunale degli imputati per crimini gravi, senza natura puramente religiosa (illeciti tali per ordinamento romano o che comunque comportassero la pena di morte). Il sinedrio aveva da tempo visto sottrarsi il potere di emettere sentenze di morte e di eseguirle. L’emanazione e l’esecuzione della sentenza capitale, infatti, è manifestazione dell’IMPERIUM romano (sarebbe concorrente al potere dell’imperatore). Qualcuno obietta non sia vero: il sinedrio poteva fare ciò! Aveva lapidato un’adultera e Stefano, il proto-martire. Facilmente smentibile come tesi: l’adultera non è stata uccisa. Se ci fosse stata una sentenza, l’adultera sarebbe stata lapidata, anche se Gesù fosse intervenuto (come fa tuttora); nel caso di Stefano, invece, è un caso di linciaggio. In ragione di queste prerogative, il Sinedrio procedette all’arresto di Gesù: fu legittimo l’arresto? È stato attuato sulla base di legittimi capi d’accusa? È legittimo il doloso mutamento d’accusa che si trova registrato? Se fosse vera la dolosa mutazione, è vero che c’è una responsabilità ebraica nella morte di Gesù.
Quali sono i capi d’accusa? Sovvertiva l’ordine pubblico, invitava a non pagare i tributi e sobillava il popolo (ce lo dice il testo greco di Luca). Il messia, che allora ci si aspettava dovesse essere un comandante, un re, un messia militarizzato, avrebbe cacciato i romani. Gesù si presenta in modo del tutto opposto, non secondo l’attesa: il suo dichiararsi figlio di Dio richiama una profezia del libro di Daniele (7, 13). Qui si dice che il messia deve avere la stessa natura di Dio e colui che è della stessa natura divina di Dio è, per questo, anche RE di Israele (ecco perché nell’accusa si legge di un CRISTOS BASILEUS).
A lui, quindi, può essere addebitato un crimine pluri-offensivo: auto dichiaratosi della stessa natura divina è un BESTEMMIATORE; essendo anche Re di Israele, offende la maestà di Tiberio. Qual è l’errore? Non averlo accolto come figlio di Dio qual era.
La dottrina sottolinea alcune irregolarità: nonostante tutto questo, nel sinedrio furono commesse delle irregolarità. Di chi è la responsabilità?
-        La presenza dei falsi testimoni: costoro sarebbero stati pagati dai sinedriti (grave responsabilità); dagli stessi vangeli si ricava il fatto che questi testimoni erano contraddittori (i sinedriti li ritennero inutilizzabili).
-        Nella legge ebraica v’era una regola che affermava che il processo criminale non poteva essere svolto di notte (e invece quello di Gesù avvenne di notte). È altrettanto vero che alcuni studiosi hanno affermato che era possibile rifarsi a due calendari: secondo uno i fatti si sarebbero svolti di notte, tra il giovedì e il venerdì; secondo l’altro il processo si sarebbe svolto in 3 giorni. Un avvenimento offre drammaticità più intensa quanto più è contenuto in poco tempo.  
-        Nessuno può essere condannato sulla base di un’unica testimonianza: Gesù stesso fu unico testimone (i sinedriti non avevano altri testimoni). La testimonianza è SEMPRE dei terzi: non è assimilabile confessione a testimonianza!
Ammettiamo che tutte queste obiezioni siano vere: il sommo sacerdote scongiura Gesù di dire che è lui il figlio di Dio. Gesù dice: “Tu lo dici, io lo sono”. Il sacerdote si straccia le vesti in segno di scandalo. In realtà, analizzando il testo greco, lo scongiurare del sacerdote impone a Gesù di dire come sotto giuramento la sua confessione. La risposta di Gesù nel testo greco è: EGO’ EIMI’ (IO SONO, non “io LO sono”). Perché questo stracciarsi le vesti? Perché EGO EIMI è la traduzione in greco di JAVE’. Costui ha pronunciato il TETRAGRAMMA sacro che deve essere IMPRONUNCIABILE! Ecco dov’è lo scandalo. È un reato commesso in flagrante, in quel preciso momento. Colui che si dichiara Dio è anche re d’Israele. Che bisogno si ha di altra testimonianza? È reo!
Pilato giunge alla condanna dopo aver valutato il fascicolo probatorio, che era uno dei tanti tentativi di liberare Gesù. Se si osserva con attenzione, v’è emersione della regalità di Gesù. La questione fondamentale che emerge dalla domanda di Pilato è: “Tu sei Re?”. E Gesù risponde: “Sì, tu lo dici e io sono Re”. Questo al magistrato basta.
L’esecuzione di questa pena è perpetrata da parte dei soldati romani e del centurione che verifichi la morte effettiva. Gesù è il predicatore, re dei Giudei e questo emerge nel TITULUS CRUCIS, ovvero nella motivazione della condanna (questa si riconduce a ciò che si è detto prima: la sentenza di condanna era rivolta alla doppia violazione della natura di Gesù).
Nel processo a Gesù si è avuto una doppia partecipazione: quella del Sinedrio e quella del magistrato romano che doveva gestire il giudizio vero e proprio. Questi hanno dato vita ad una unicità di procedimento che invece troppo spesso viene moltiplicato in un numero troppo elevato di processi.

Fu quello uno IUDICIUM IUSTUM o INIUSTUM? Fu conforme alle regole o no? Si può parlare di IUDICIUM IUSTUM, in un sostanziale rispetto delle regole procedurali.

4^ LEZIONE DI DIRITTO PRIVATO.

L’accordo contrattuale esiste se ed in quanto sia stato portato a compimento uno dei procedimenti di conclusione del contratto (la legge vi allude quando parla di formazione del contratto). Composti da diverse sequenze di una serie di atti che permettano alla fine del procedimento di dire che il contratto è perfetto.
Tutti i procedimenti cominciano con quell’atto che alla fine di eventuali trattative decide se concludere o meno il contratto, con la proposta contrattuale (atto mediante il quale un soggetto prende l’iniziativa di rivolgersi ad un destinatario, chiedendo a quest’altro soggetto se desidera concludere o meno questo contratto).
Il procedimento è descritto all’articolo 1326 CC: nel I comma si riferisce al momento nel tempo di conclusione del contratto. Questo atto può dirsi concluso quando c’è il consenso delle parti (una delle due conosce l’ACCETTAZIONE dell’altra parte). Il momento di conclusione del contratto è fondamentale, perché solo a partire dal momento di conclusione del contratto cominciano a prodursi gli effetti del contratto. Gli effetti del contratto, quindi, iniziano ad esistere nel momento di conclusione del contratto. Se il contratto ancora non è concluso, ad esempio, la macchina è ancora del venditore. Se la macchina è distrutta nel momento in cui il contratto è già stato perfezionato io (in quanto acquirente) devo comunque i soldi al venditore, anche se la macchina risulta distrutta da un crollo improvviso del capannone.
Il contratto è concluso nel momento in cui il primo conosce l’accettazione della proposta del secondo. Ci vuole anche una dichiarazione DI ACCETTAZIONE del destinatario.
Il meccanismo è fatto di proposta + accettazione. Ma cos’è questa accettazione? In quali casi l’accettazione determina la conclusione del contratto?
Il principio secondo il quale la dichiarazione dell’oblato può determinare il momento di accettazione del contratto, solo se d’accordo, è fondamentale per il perfezionamento di un contratto. La accettazione deve essere conforme alla proposta: il contratto si concluderà quando il proponente avrà coscienza della accettazione del compratore.
Cosa succede se l’accettazione non è conforme alla proposta? Le volontà dichiarate tramite proposta e accettazione non sono conformi. Il proponente vuole vendere la sua auto per 50.000€. L’oblato accetta di acquistare l’auto per 40.000€. Cosa succede? Il vecchio proponente diventa un nuovo oblato; il vecchio oblato diventa nuovo proponente. Tutto in forza dell’articolo 1326, ultimo comma. Il vecchio proponente diventerà accettante o respingente.
Questa regola espressa nell’ultimo comma dell’articolo 1326 è chiara espressione del principio di economicità, già enunciato sopra. L’accettazione conforme alla proposta determina la conclusione del contratto nel momento in cui l’accettazione entra nel panorama di conoscenza del proponente.
Dal punto di vista giuridico la sottoscrizione (la firma) è lo strumento per appropriarsi di un contenuto (nel nostro caso di una dichiarazione di volontà): quando si firma un foglio, stiamo riferendo a noi ciò che è contenuto all’interno del foglio. E questo è il motivo per cui la firma viene posta al di sotto della dichiarazione: la firma serve ad appropriarsi ciò che è scritto PRIMA di essa. Ciò che è scritto prima non è riferibile alla persona che ha firmato.
Seconda precisazione: il contratto si conclude nel momento in cui il proponente ha conoscenza dell’accettazione della prima parte. Il momento in cui l’accettazione viene emessa, è il momento stesso in cui viene proposta la possibilità (ad esempio questo in un negozio o in diretto collegamento via internet). Logicamente il tempo tra proposta ed accettazione deve sempre intercorrere (anche se è minimo).
Il contratto, quindi, è concluso quando il proponente viene a conoscenza dell’accettazione.
I problemi nascono quando si parla di…
ATTI RECETTIZI: atti i quali producono effetti nel momento in cui arrivano alla persona determinata cui sono destinati. Ad esempio la proposta contrattuale. L’esempio che possiamo fare è l’esempio della costituzione in mora del debitore: differenza fra negozio giuridico e atto giuridico in senso stretto (negozio: regolamento di interessi; atto: presuppone un regolamento di interessi). È un atto NON negoziale che ha l’effetto giuridico di mettere in mora il debitore: il creditore chiede per iscritto al debitore di pagarlo (art. 1219). Questo è un esempio di atto giuridico recettizio.
Dal momento in cui sono ricevuti, vale l’articolo 1334. Questi atti recettizi si distinguono dagli atti NON recettizi, che producono i loro effetti anche se non conosciuti dalla persona alla quale non sono destinati.
Questi sono atti che producono effetti dal momento in cui vengono emessi: non sono diretti ad una persona determinata. Sono diretti ad un gruppo indistinto di persone (si pensi, ad esempio, ad una borsa di studio). Il signor X che promette una borsa di studio al miglior studente dell’a.a. 2014-15 è tenuto a dare la borsa di studio al miglior studente (ma l’effetto decorre dal momento in cui il signor X emette questa volontà).
Come si fa a sapere se il destinatario ha effettivamente ricevuto l’atto recettizio? L’articolo 1334 lascia aperto questo problema: “le porte della mente si aprono solo dall’interno”. La legge risolve il problema dettando un’altra regola all’articolo 1335: se la dichiarazione arriva all’indirizzo del destinatario, la legge presume che il destinatario la conosca. Il destinatario può dimostrare il contrario, dicendo che senza sua colpa non è riuscito a conoscere l’atto recettizio.
Questa è una regola molto importante, che fissa una presunzione di conoscenza. La scelta formale del legislatore potrebbe anche essere diversa (vedi il caso tedesco, in cui basta semplicemente l’emissione della dichiarazione di accettazione; il caso spagnolo, in cui c’è bisogno dimostrare la CONOSCENZA -- > lasciano in piedi il problema).
Nel I libro del codice civile: COLLOCAZIONE SPAZIALE DELL’INDIVIDUO. Posti giuridicamente rilevanti dove una persona si può trovare: DIMORA, RESIDENZA e il DOMICILIO.
La dimora è il luogo in cui una persona si trova anche solo TEMPORANEAMENTE, purché con un carattere di minima stabilità.
RESIDENZA (art. 43 II comma): dove dimora abitualmente la persona.
Il DOMICILIO: si distingue in domicilio generale e speciale (che un essere umano può avere o meno). Il domicilio GENERALE è il luogo dove la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi.
Ovviamente può accadere che una persona abbia dimora e domicilio diversi; ma può anche accadere che la persona abbia residenza e domicilio nello stesso posto. Ex articolo 47: “si può eleggere domicilio speciale per determinati atti o affari”. Per tutto ciò che riguarda quell’atto o quell’affare la persona sceglie di essere domiciliata in quel luogo.
La persona fisica, per legge, si trova nello spazio presso questi tre posti. Per quanto riguarda le persone giuridiche, le nozioni sopra enunciate vengono sostituite dalla nozione di SEDE (ex articolo 46).
Tornando all’articolo 1335: si dice che l’atto recettizio giunge all’indirizzo del destinatario. Qual è questo indirizzo? Bisogna interpretare il concetto di indirizzo dal punto di vista del 1335. Una prima interpretazione della norma è stata: l’indirizzo è una delle collocazioni spaziali della persona. Indirizzo, secondo questa lettura, sarebbe solo un’espressione sintetica. Questa è una concezione che nessuno ha mai negato.
A partire dagli anni 70 e 80 ci è stata un’elaborazione ulteriore: indirizzo = luoghi diversi dai 3 sopra elencati. Questa estensione è stata occasionata da una serie di controversi casi in cui un destinatario di atto unilaterale recettizio (per esempio, sfratto) il conduttore dell’immobile dice di non aver ricevuto l’intimazione di sfratto perché non è arrivata al suo indirizzo, perché il postino ha imbucato nella buca delle lettere che non si trova nella casa, ma alla fine del vialetto. Per smontare questa assurda tesi, bisogna reinterpretare il 1335. La Cassazione afferma che per “domicilio” si deve intendere il luogo sottoposto alla sfera di controllo del destinatario. In questo modo, anche la cassetta delle lettere in fondo al vialetto fa parte del domicilio. Oggi per indirizzo si intende anche spazio che sta sotto la sfera di controllo della persona. Questa nozione di indirizzo, elaborata negli ultimi 20-30 anni, ha risolto un problema che all’epoca ancora non era concepibile: l’indirizzo mail.

Anche l’indirizzo mail, pur essendo virtuale, è un luogo che sta sotto la sfera di controllo dell’individuo. Questa definizione calza a pennello per quanto riguarda una dichiarazione mandata ad un indirizzo di casella postale. Se l’accettazione arriva all’indirizzo del destinatario, allora questa si riterrà venuta a conoscenza del destinatario stesso.