sabato 28 marzo 2015

10^ LEZIONE DI DIRITTO PRIVATO.

L’OGGETTO DEL CONTRATTO
La definizione più lineare è quella di “cose o attività disciplinate dal contratto”. Rispetto all’oggetto il codice contiene alcune norme che ne determinano i requisiti, art. 1346 (oggetto POSSIBILE, LECITO e DETERMINATO o DETERMINABILE). La legge richiede che l’oggetto del contratto sia:
-        Possibile: la ragione è sempre (di nuovo) il principio di economicità. Se il contratto ha un oggetto impossibile, il contratto non ha nessuna ragion d’essere. Il contratto, quindi, è attività inutile e spesa altrettanto inutile. La possibilità viene intesa in due sensi: possibilità fisica o materiale dell’oggetto del contratto e possibilità giuridica dell’oggetto del contratto.
o   POSSIBILITA’ FISICA: si fa riferimento alla circostanza che le leggi della fisica consentano una determinata attività. Sarebbe fisicamente impossibile l’oggetto di un contratto che fosse per esempio un contratto di trasporto in cui, in cambio di un pagamento di un determinato prezzo, il vettore si obbligasse a fare una circumnavigazione degli anelli di Saturno. Se la prestazione diventa possibile (art. 1347) prima dell’avvenimento della condizione o della scadenza del termine allora il contratto è valido. Si faccia l’esempio dell’acquisto dei biglietti per un viaggio nello spazio (ancora impossibile ma non per molto).
o   POSSIBILITA’ GIURIDICA: pur non essendo impossibile fisicamente l’attività o il diritto sulla cosa, giuridicamente questo oggetto non è concepibile. Si faccia un esempio: si prenda l’articolo 810 del CC. Ci sono cose che sono anche beni (perché possono essere oggetto di diritti) e ci sono cose che non sono beni (perché non possono esserne oggetto). Il criterio nasce dalla funzione assolta dal diritto di proprietà nell’ordinamento giuridico. Che funzione ha questo diritto? Senza entrare nei dettagli, si capisce che il diritto di proprietà serve a risolvere una questione di appartenenza delle cose. Con questo criterio si individua il soggetto che può dire “questa cosa mi appartiene”. Costui è l’unico soggetto che ha un potere sulla cosa, magari cedendola ad altri, vendendola, facendola utilizzare ad altri. È necessario che ogni cosa debba aver un proprietario, in quanto chiunque potrebbe utilizzare un quid che non è di nessuno: in questo caso nascerebbe un conflitto, risolvibile a vantaggio di chi usa la forza o la furbizia. I conflitti che ne nascerebbero sarebbero dannosi dell’ordine civile e sociale.
Questa esigenza si pone rispetto alle cose che esistono in misura non sufficiente a soddisfare il bisogno di tutti: il conflitto sulle appartenenze può nascere sulle risorse limitate. Non tutte le cose sono risorse limitate: le automobili lo sono (sono beni perché oggetto possibile di diritto di proprietà), la luce del sole non lo è (non è un bene perché non è oggetto possibile di diritto di proprietà). Non è necessario né ammissibile che qualcuno si dica proprietario dell’energia solare. Se ci fosse un contratto in cui Tizio vende a Caio un tot di energia solare, questo contratto sarebbe nullo (la soluzione che ciascuno di noi raggiunge è ottenibile attraverso la possibilità giuridica del contratto).
Abbiamo poi parlato della LICEITA’.
L’oggetto del contratto sono i beni (o i diritti su questo) che le parti prendono in considerazione nel contratto. Quando si parla di liceità, la legge introduce un requisito un solo aspetto dell’oggetto (attività o prestazioni dell’oggetto del contratto): è tutto ciò che è permesso, consentito od ordinato dalla legge. Proprio perché ci si pone all’interno di una valutazione di conformità o di difformità rispetto alla legge è una regola di comportamento, che impone di fare qualcosa o lo vieta. La norma giuridica, essendo rivolta alle persone di cui regola i comportamenti, si rivolge ai comportamenti umani (i destinatari sono loro). Le cose o i beni non sono destinatari di norme giuridiche, naturalmente. La prestazione deve essere lecita, quella parte di oggetto richiesta dalla norma lecita. Nel contratto che ha un oggetto parzialmente illecito, questo manca di requisito essenziale.
DETERMINATEZZA o DETERMINABILITA’
Al momento della stipulazione del contratto devono essere stabiliti i beni sulle quali le parti contraggono (altrimenti il contratto manca del suo oggetto). Senza la determinazione dell’oggetto (ex articolo 1346) non si sa di cosa si stia parlando nel contratto. Occorre che da contratto risultino specificati quali sono i criteri in base ai quali determinare l’oggetto del contratto (non serve, in sostanza, che l’oggetto sia PERFETTAMENTE definito, ma che sia definibile). Rispetto alla determinabilità dell’oggetto del contratto, il codice si occupa (nell’articolo 1349) dell’ipotesi in cui le due parti abbiano affidato la determinazione dell’oggetto del contratto ad un terzo. La determinazione viene fatta da soggetto diverso rispetto alle parti contraenti: ARBITRAGGIO (attività) e (personaggio) ARBITRATORE. L’arbitraggio è la determinazione dell’oggetto del contratto, fatto dall’arbitratore (DA NON CONFONDERE CON L’ARBITRATO, procedimento di risoluzione di liti giudiziari, affidati ad ARBITRI, che sono giudici privati, dotati dello stesso potere della magistratura ordinaria).
L’intervento dell’arbitratore nell’articolo 1349 è concepito in due modi:
-        Arbitraggio SECUNDUM ARBITRIUM BONI VIRI, usando il suo “mero arbitrio”;
-        Arbitraggio SECUNDUM EQUO APPREZZAMENTO, usando il suo “equo apprezzamento”.
Le parti non sono esperte della materia di cui c’è bisogno di precisione e si affidano ad un arbitratore terzo. Per esempio: le parti decidono di vendere la loro abitazione sul Sile. Le parti non sanno il valore di mercato di questo immobile e così chiedono ad un arbitratore (esperto) di determinare il prezzo di mercato del bene immobile.
Nel mero arbitrio le parti non si preoccupano della competenza del terzo. Le parti, semplicemente, si affidano ad un terzo dicendo che qualsiasi cosa egli faccia andrà bene. La differenza fra arbitraggio secondo equo apprezzamento e arbitraggio secondo mero arbitrio ci fa capire come siano molto più frequenti gli arbitraggi SECUNDUM EQUO APPREZZAMENTO. Se le parti vogliono un arbitraggio secondo mero arbitrio devono dichiararlo espressamente (ecco perché la maggiore diffusione del secondo tipo di arbitraggio rispetto al primo).
La differenza fondamentale riguarda non soltanto il modo in cui l’arbitratore esegue il suo incarico, ma anche sotto il profilo della disciplina dei rimedi concessi alle parti contro inadempimenti del terzo arbitratore. Dato che c’è anche il contratto con cui le parti hanno dato l’incarico al terzo arbitratore, può succedere che il terzo arbitratore non svolga bene il suo incarico. Nel caso di arbitraggio secondo equo apprezzamento le parti possono chiedere l’intervento del giudice nel caso in cui:
-        La determinazione manchi;
-        La determinazione sia iniqua od erronea.
Il giudice, quindi, provvederà all’eliminazione della determinazione del terzo arbitratore, per definirne una lui. Gli si chiede un’attività competente e conforme alle regole professionali della sua specifica attività.
Nel caso di arbitraggio secondo mero arbitrio si può impugnare la decisione del terzo arbitratore solo se FATTA IN MALA FEDE. La domanda è: di che cosa ci si può lamentare se ci si è affidati al mero arbitrio? Le persone, quando si affidano al mero arbitrio, scelgono l’imparzialità, perché sanno che la decisione che costui/costei prenderà non sarà iniqua per una delle parti. La mala fede a cui allude l’articolo 1349 consiste nell’ipotesi in cui il terzo arbitratore abbia dolosamente avvantaggiato una delle due parti a scapito dell’altra.
LA FORMA DEL CONTRATTO
È richiesta dalla legge (a pena di nullità). Si parta dalla definizione di forma del contratto (condivisa ormai da tutti gli studiosi): per forma si intende il modo in cui la volontà è manifestata. Questa nozione ci fa capire come in tutti i contratti ci sia necessariamente una forma, perché rileva nell’ordinamento giuridico soltanto la volontà che sia stata espressa all’esterno dai contraenti. La legge, occupandosi dei fatti sociali, si occupa solo di ciò che è manifestato all’interno. La volontà DEVE ESSERE ESPRESSA dagli individui. Se teniamo presente questo dato fondamentale, si può anche capire che se la forma è il modo in cui la volontà è manifestata, allora ogni manifestazione della volontà è stata manifestata in qualche modo. Ogni espressione di volontà ha necessariamente una forma (non esiste contratto senza forma). Le forme sono diversissime. Si possono classificare in due categorie:
-        Dichiarazioni di volontà;
-        Manifestazioni di volontà.
Sono categorie individuate sulla base di regole/criteri che appartengono a quella scienza chiamata “linguistica”: si ha dichiarazione di volontà quando sia espressa per simboli; si ha manifestazione se espressa per SEGNALI. Quando si parla di simboli si fa riferimento all’uso di suoni o di segni che sono il simbolo di un determinato significato. Si pensi alla parola “accetto”. La parola è un suono particolare, a cui per una convenzione diamo un certo significato (lo stesso accade quando leggiamo il segno riconducibile alla parola). La volontà di accettare può essere espressa sollevando e abbassando la testa (assenso da cui possiamo ricavare la volontà di accettare una proposta). Questi sono detti SEGNALI che esprimono ugualmente la volontà (manifestazioni). Le espressioni e le forme della volontà si distinguono in manifestazioni e dichiarazioni. Si può anche constatare come la dichiarazione di una certa volontà possa essere manifestazione di una volontà ulteriore: si pensi ai sottintesi o ai significati impliciti di una dichiarazione (es. contratto di vendita di un edificio ancora non costruito chiavi in mano. Questa dichiarazione contiene la manifestazione di una volontà ulteriore, cioè di impegnarsi a tirar su la casa nei tempi stabiliti).

L’articolo 1325 numero 4 ci dice che uno dei requisiti essenziali è la forma. La forma esiste sempre in ogni contratto: in certi casi la legge richiede una determinata forma a pena di nullità del contratto (non si accontenta di una forma qualsiasi, che c’è in ogni contratto). La legge impone una certa forma alle parti, di esprimere la loro volontà in certi modi. La regola dell’articolo 1325 va letta nel senso che una determinata forma se richiesta a pena di nullità è ulteriore motivo di esistenza del contratto. L’importanza di questa regola si vede nei casi in cui la legge NON imponga una forma a pena di nullità. Si considerino i contratti per i quali non v’è alcuna regola per la forma: le parti possono scegliere come esternare la propria volontà. Tale principio è detto di LIBERTA’ DELLE FORME. Questo principio si riconduce anch’esso al principio più generale della AUTONOMIA PRIVATA (le parti possono regolare liberamente i contenuti del contratto, nei limiti delle norme del diritto positivo; le parti possono regolare liberamente la forma del contratto, salvo che la legge non ne preveda una specifica, così come riporta la formulazione del 1322).

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