L’OGGETTO DEL
CONTRATTO
La definizione
più lineare è quella di “cose o attività disciplinate dal contratto”. Rispetto
all’oggetto il codice contiene alcune norme che ne determinano i requisiti,
art. 1346 (oggetto POSSIBILE, LECITO e DETERMINATO o DETERMINABILE). La legge
richiede che l’oggetto del contratto sia:
-
Possibile: la ragione è sempre (di nuovo) il
principio di economicità. Se il contratto ha un oggetto impossibile, il
contratto non ha nessuna ragion d’essere. Il contratto, quindi, è attività
inutile e spesa altrettanto inutile. La possibilità viene intesa in due sensi:
possibilità fisica o materiale dell’oggetto del contratto e possibilità
giuridica dell’oggetto del contratto.
o POSSIBILITA’
FISICA: si fa riferimento alla circostanza che le leggi della fisica consentano
una determinata attività. Sarebbe fisicamente impossibile l’oggetto di un
contratto che fosse per esempio un contratto di trasporto in cui, in cambio di
un pagamento di un determinato prezzo, il vettore si obbligasse a fare una
circumnavigazione degli anelli di Saturno. Se la prestazione diventa possibile
(art. 1347) prima dell’avvenimento della condizione o della scadenza del
termine allora il contratto è valido. Si faccia l’esempio dell’acquisto dei
biglietti per un viaggio nello spazio (ancora impossibile ma non per molto).
o POSSIBILITA’
GIURIDICA: pur non essendo impossibile fisicamente l’attività o il diritto
sulla cosa, giuridicamente questo oggetto non è concepibile. Si faccia un
esempio: si prenda l’articolo 810 del CC. Ci sono cose che sono anche beni
(perché possono essere oggetto di diritti) e ci sono cose che non sono beni (perché
non possono esserne oggetto). Il criterio nasce dalla funzione assolta dal
diritto di proprietà nell’ordinamento giuridico. Che funzione ha questo
diritto? Senza entrare nei dettagli, si capisce che il diritto di proprietà
serve a risolvere una questione di appartenenza delle cose. Con questo criterio
si individua il soggetto che può dire “questa cosa mi appartiene”. Costui è
l’unico soggetto che ha un potere sulla cosa, magari cedendola ad altri,
vendendola, facendola utilizzare ad altri. È necessario che ogni cosa debba
aver un proprietario, in quanto chiunque potrebbe utilizzare un quid che non è
di nessuno: in questo caso nascerebbe un conflitto, risolvibile a vantaggio di
chi usa la forza o la furbizia. I conflitti che ne nascerebbero sarebbero dannosi
dell’ordine civile e sociale.
Questa
esigenza si pone rispetto alle cose che esistono in misura non sufficiente a
soddisfare il bisogno di tutti: il conflitto sulle appartenenze può nascere
sulle risorse limitate. Non tutte le cose sono risorse limitate: le automobili
lo sono (sono beni perché oggetto possibile di diritto di proprietà), la luce
del sole non lo è (non è un bene perché non è oggetto possibile di diritto di
proprietà). Non è necessario né ammissibile che qualcuno si dica proprietario
dell’energia solare. Se ci fosse un contratto in cui Tizio vende a Caio un tot
di energia solare, questo contratto sarebbe nullo (la soluzione che ciascuno di
noi raggiunge è ottenibile attraverso la possibilità
giuridica del contratto).
Abbiamo poi
parlato della LICEITA’.
L’oggetto del
contratto sono i beni (o i diritti su questo) che le parti prendono in
considerazione nel contratto. Quando si parla di liceità, la legge introduce un
requisito un solo aspetto dell’oggetto (attività o prestazioni dell’oggetto del
contratto): è tutto ciò che è permesso, consentito od ordinato dalla legge.
Proprio perché ci si pone all’interno di una valutazione di conformità o di
difformità rispetto alla legge è una regola di comportamento, che impone di
fare qualcosa o lo vieta. La norma giuridica, essendo rivolta alle persone di
cui regola i comportamenti, si rivolge ai comportamenti umani (i destinatari
sono loro). Le cose o i beni non sono destinatari di norme giuridiche,
naturalmente. La prestazione deve essere lecita, quella parte di oggetto
richiesta dalla norma lecita. Nel contratto che ha un oggetto parzialmente
illecito, questo manca di requisito essenziale.
DETERMINATEZZA
o DETERMINABILITA’
Al momento
della stipulazione del contratto devono essere stabiliti i beni sulle quali le
parti contraggono (altrimenti il contratto manca del suo oggetto). Senza la
determinazione dell’oggetto (ex articolo 1346) non si sa di cosa si stia
parlando nel contratto. Occorre che da contratto risultino specificati quali
sono i criteri in base ai quali determinare l’oggetto del contratto (non serve,
in sostanza, che l’oggetto sia PERFETTAMENTE definito, ma che sia definibile).
Rispetto alla determinabilità dell’oggetto del contratto, il codice si occupa
(nell’articolo 1349) dell’ipotesi in cui le due parti abbiano affidato la
determinazione dell’oggetto del contratto ad un terzo. La determinazione viene
fatta da soggetto diverso rispetto alle parti contraenti: ARBITRAGGIO
(attività) e (personaggio) ARBITRATORE. L’arbitraggio è la determinazione
dell’oggetto del contratto, fatto dall’arbitratore (DA NON CONFONDERE CON L’ARBITRATO, procedimento di risoluzione di
liti giudiziari, affidati ad ARBITRI, che sono giudici privati, dotati dello
stesso potere della magistratura ordinaria).
L’intervento
dell’arbitratore nell’articolo 1349 è concepito in due modi:
-
Arbitraggio SECUNDUM ARBITRIUM BONI VIRI, usando
il suo “mero arbitrio”;
-
Arbitraggio SECUNDUM EQUO APPREZZAMENTO, usando
il suo “equo apprezzamento”.
Le parti non
sono esperte della materia di cui c’è bisogno di precisione e si affidano ad un
arbitratore terzo. Per esempio: le parti decidono di vendere la loro abitazione
sul Sile. Le parti non sanno il valore di mercato di questo immobile e così
chiedono ad un arbitratore (esperto) di determinare il prezzo di mercato del
bene immobile.
Nel mero
arbitrio le parti non si preoccupano della competenza del terzo. Le parti,
semplicemente, si affidano ad un terzo dicendo che qualsiasi cosa egli faccia
andrà bene. La differenza fra arbitraggio secondo equo apprezzamento e
arbitraggio secondo mero arbitrio ci fa capire come siano molto più frequenti
gli arbitraggi SECUNDUM EQUO APPREZZAMENTO. Se le parti vogliono un arbitraggio
secondo mero arbitrio devono dichiararlo espressamente (ecco perché la maggiore
diffusione del secondo tipo di arbitraggio rispetto al primo).
La differenza
fondamentale riguarda non soltanto il modo in cui l’arbitratore esegue il suo
incarico, ma anche sotto il profilo della disciplina dei rimedi concessi alle
parti contro inadempimenti del terzo arbitratore. Dato che c’è anche il
contratto con cui le parti hanno dato l’incarico al terzo arbitratore, può
succedere che il terzo arbitratore non svolga bene il suo incarico. Nel caso di
arbitraggio secondo equo apprezzamento le parti possono chiedere l’intervento
del giudice nel caso in cui:
-
La determinazione manchi;
-
La determinazione sia iniqua od erronea.
Il giudice,
quindi, provvederà all’eliminazione della determinazione del terzo arbitratore,
per definirne una lui. Gli si chiede un’attività competente e conforme alle
regole professionali della sua specifica attività.
Nel caso di
arbitraggio secondo mero arbitrio si può impugnare la decisione del terzo
arbitratore solo se FATTA IN MALA FEDE. La domanda è: di che cosa ci si può
lamentare se ci si è affidati al mero arbitrio? Le persone, quando si affidano
al mero arbitrio, scelgono l’imparzialità, perché sanno che la decisione che
costui/costei prenderà non sarà iniqua per una delle parti. La mala fede a cui
allude l’articolo 1349 consiste nell’ipotesi in cui il terzo arbitratore abbia
dolosamente avvantaggiato una delle due parti a scapito dell’altra.
LA FORMA DEL
CONTRATTO
È richiesta
dalla legge (a pena di nullità). Si parta dalla definizione di forma del
contratto (condivisa ormai da tutti gli studiosi): per forma si intende il modo in cui la volontà è manifestata.
Questa nozione ci fa capire come in tutti i contratti ci sia necessariamente
una forma, perché rileva nell’ordinamento giuridico soltanto la volontà che sia
stata espressa all’esterno dai contraenti. La legge, occupandosi dei fatti
sociali, si occupa solo di ciò che è manifestato all’interno. La volontà DEVE
ESSERE ESPRESSA dagli individui. Se teniamo presente questo dato fondamentale,
si può anche capire che se la forma è il modo in cui la volontà è manifestata,
allora ogni manifestazione della volontà è stata manifestata in qualche modo. Ogni
espressione di volontà ha necessariamente una forma (non esiste contratto senza
forma). Le forme sono diversissime. Si possono classificare in due categorie:
-
Dichiarazioni di volontà;
-
Manifestazioni di volontà.
Sono categorie
individuate sulla base di regole/criteri che appartengono a quella scienza
chiamata “linguistica”: si ha dichiarazione di volontà quando sia espressa per
simboli; si ha manifestazione se espressa per SEGNALI. Quando si parla di
simboli si fa riferimento all’uso di suoni o di segni che sono il simbolo di un
determinato significato. Si pensi alla parola “accetto”. La parola è un suono
particolare, a cui per una convenzione diamo un certo significato (lo stesso
accade quando leggiamo il segno riconducibile alla parola). La volontà di
accettare può essere espressa sollevando e abbassando la testa (assenso da cui
possiamo ricavare la volontà di accettare una proposta). Questi sono detti
SEGNALI che esprimono ugualmente la volontà (manifestazioni). Le espressioni e
le forme della volontà si distinguono in manifestazioni e dichiarazioni. Si può
anche constatare come la dichiarazione di una certa volontà possa essere manifestazione
di una volontà ulteriore: si pensi ai sottintesi o ai significati impliciti di
una dichiarazione (es. contratto di vendita di un edificio ancora non costruito
chiavi in mano. Questa dichiarazione contiene la manifestazione di una volontà
ulteriore, cioè di impegnarsi a tirar su la casa nei tempi stabiliti).
L’articolo
1325 numero 4 ci dice che uno dei requisiti essenziali è la forma. La forma
esiste sempre in ogni contratto: in certi casi la legge richiede una
determinata forma a pena di nullità del contratto (non si accontenta di una
forma qualsiasi, che c’è in ogni contratto). La legge impone una certa forma
alle parti, di esprimere la loro volontà in certi modi. La regola dell’articolo
1325 va letta nel senso che una determinata forma se richiesta a pena di
nullità è ulteriore motivo di esistenza del contratto. L’importanza di questa
regola si vede nei casi in cui la legge NON imponga una forma a pena di
nullità. Si considerino i contratti per i quali non v’è alcuna regola per la
forma: le parti possono scegliere come esternare la propria volontà. Tale
principio è detto di LIBERTA’ DELLE FORME. Questo principio si riconduce
anch’esso al principio più generale della AUTONOMIA PRIVATA (le parti possono
regolare liberamente i contenuti del contratto, nei limiti delle norme del
diritto positivo; le parti possono regolare liberamente la forma del contratto,
salvo che la legge non ne preveda una specifica, così come riporta la
formulazione del 1322).
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